a cura di Rosa Bianco
Nacque a Torino da una famiglia ebrea, il 22 aprile 1909 con la gemella Paola, da Adamo Levi, ingegnere e matematico e Adele Montalcini, pittrice. Entrambi i genitori erano molto colti e instillarono nei figli il proprio apprezzamento per la ricerca intellettuale.
Trascorse l’infanzia e l’adolescenza in un ambiente sereno, sebbene dominato da una concezione tipicamente vittoriana dei rapporti con i genitori e dei ruoli femminili e maschili e dalla forte personalità del padre convinto che una carriera professionale avrebbe interferito con i doveri di una moglie e di una madre. Malgrado il volere del padre, il quale disapprovava che la figlia andasse all’Università: non era roba da femmine – diceva – s’iscrisse alla facoltà di Medicina. La scelta fu determinata dal fatto che in quell’anno si ammalò e morì di cancro la sua amata governante.
Esile, dagli occhi limpidi e chiarissimi, si sentiva brutta e era molto timida, ma aveva una volontà ferrea. S’iscrisse all’Università di Medicina e si laureò nel 1936, con il massimo dei voti, ma i guai per lei non erano finiti. Di lì a breve, due anni dopo fu costretta a sospendere l’attività accademica, a causa delle leggi razziali del Duce, che impedivano le carriere ai cittadini di razza non ariana. Non si arrese neanche stavolta.
Emigrò prima in Belgio col suo maestro Giuseppe Levi e, poco prima che questo fosse invaso dalle truppe tedesche, rientrò in patria, dove organizzò un laboratorio di neuroembriologia, in camera da letto, nella sua casa di corso Re Umberto. Aveva 30 anni e un obiettivo dal quale non l’avrebbero distolta neanche le bombe della seconda guerra mondiale: voleva capire come si formano le fibre nervose e quali fattori regolano la crescita del sistema nervoso.
In quella stanza, china sul microscopio a studiare i neuroni di embrioni di pollo, avrebbe compiuto esperimenti decisivi per la scoperta che le sarebbe valsa il Nobel. Vennero i bombardamenti e si spostò con la famiglia a Firenze, poco prima della Liberazione, ospite della famiglia la cui figlia, pittrice, era amica di Paola, sua sorella gemella, anch’ella pittrice. Qui si dedicò alla cura dei rifugiati scappati dal Nord. I Levi-Montalcini restarono a Firenze, divisi in vari alloggi, sino alla liberazione della città, cambiando spesso abitazione, per non incorrere nelle deportazioni. Una volta furono salvati da una domestica, che li fece scappare appena in tempo.
A Firenze, Rita fu in contatto con le forze partigiane del Partito d’Azione e nel 1944 entrò come medico nelle forze alleate, curando le malattie infettive e il tifo addominale. Qui si accorse però che quel lavoro non era adatto a lei, in quanto non riusciva a costruire il necessario distacco personale dal dolore dei pazienti, lavoro da lei stessa definito difficile e penoso per il diffondersi delle epidemie. Dopo la guerra tornò dalla famiglia a Torino, dove riprese gli studi accademici e allestì un laboratorio di fortuna casalingo, in una collina vicino ad Asti.
Nell’autunno del 1947 dall’università di Washington a Saint Louis, il professor Viktor Hamburger la invitò a trascorrere un semestre negli Usa. Ci sarebbe rimasta 26 anni.
I risultati sempre più interessanti le impedirono di tornare in Italia alla fine del semestre e anche negli oltre vent’anni successivi. Nel corso dei quali, a partire dal ’69 fino al ’78 il Consiglio Nazionale delle Ricerche le affidò anche la direzione dell’Istituto di biologia cellulare. Un esperimento, in particolare, si rivelò decisivo: un tumore di topo trapiantato in un embrione di pollo produceva come risultato una rigogliosa crescita di fibre nervose. Rita Levi Montalcini intuì che doveva entrare in gioco una sostanza capace di stimolare la proliferazione dei neuroni. Fu così che, all’inizio degli anni Cinquanta, arrivò alla cruciale scoperta del Nerve Growth Factor (Ngf), il fattore di crescita dei nervi. L’establishment scientifico stentò a credervi.
Era stata appena spalancata una porta su un universo – il sistema nervoso – ancora quasi completamente sconosciuto. Le ricerche in quegli anni proseguirono in modo febbrile. Rita, però, sentiva la mancanza dell’Italia. Finalmente nel 1961 riuscì a instaurare un ponte con l’altra sponda dell’oceano e fondò un gruppo di neurobiologia, prima all’Istituto Superiore di Sanità, poi al Laboratorio di biologia cellulare del Cnr.
Con gli allievi Pietro Calissano, Luigi Aloe, Antonino Cattaneo portò avanti nuove ricerche, che mostrarono l’ampio spettro d’azione del Ngf, aprendo la strada all’uso clinico della proteina.
Nel 1986, all’età di 77, arrivò l’annuncio del Premio Nobel. Nel 1987 ricevette dal Presidente Ronald Reagan la National Medal of Science, l’onorificenza più alta del mondo scientifico statunitense. Dal 2001 gli studi sul Ngf proseguono allo European Brain Research Institute (Ebri), un centro sulle neuroscienze alle porte di Roma, dove lavorano quasi 300 ricercatori. Nonostante negli ultimi anni avesse quasi perso la vista e l’udito, Rita ha continuato a recarsi ogni giorno nel suo laboratorio all’Ebri. Nel 2008 accogliendo la laurea honoris causa alla Bicocca disse: ” La mia intelligenza? Più che mediocre. I miei unici meriti sono stati impegno e ottimismo”. Rita ha sempre affermato di sentirsi una donna libera. Cresciuta in «un mondo vittoriano, nel quale dominava la figura maschile e la donna aveva poche possibilità», ha dichiarato d’averne «risentito, poiché sapevo che le nostre capacità mentali – uomo e donna – son le stesse: abbiamo uguali possibilità e differente approccio». Non si è mai sposata, né ha avuto figli. Sosteneva che aveva troppe cose interessanti di cui occuparsi e che il tempo non le sarebbe bastato.
Oltre alla completa dedizione alla ricerca scientifica, si è molto spesa per gli altri, creando tra le altre cose la fondazione Rita Levi Montalcini onlus “per aiutare le donne africane a studiare e riscattarsi grazie alla conoscenza”. In vent’anni di attività, la Fondazione ha elargito oltre 7.000 borse di studio. In Italia, Rita Levi Montalcini è stata una paladina della “rivoluzione rosa” nei laboratori, schierandosi in prima linea contro le discriminazioni nell’avanzamento delle carriere femminili e contro ogni forma di pregiudizio maschilista.
Anche nella carriera politica – nel 2001 fu nominata senatrice a vita dal presidente Ciampi – si è distinta per l’inflessibile coraggio. Memorabile un episodio nel 2006, quando sfidò il governo Prodi minacciando di revocare il proprio voto – un voto decisivo per la risicata maggioranza della coalizione – se il premier avesse deciso di tagliare i fondi alla ricerca scientifica, come previsto da un provvedimento. Alla vigilia della votazione, Prodi dovette cedere alla “lady di ferro”. Garantì i finanziamenti e Rita vinse la sua battaglia.
È stata anche un’infaticabile scrittrice. Ha dato alle stampe decine di libri divulgativi, tra cui l’autobiografia
“Elogio dell’imperfezione”, “Un universo inquieto: vita e opere di Paola Levi Montalcini”, dedicato alla sorella Paola. Tra le ultime edizioni, “Abbi il coraggio di conoscere” risuona quasi come un monito, una raccomandazione, prima di congedarsi dal mondo. “Dietro l’apparente fragilità, nascondeva una forza incredibile”, la ricorda Luigi Aloe dell’Istituto di neurobiologia e medicina molecolare del Cnr di Roma, che ha condiviso gli ultimi 40 anni di ricerche con la Montalcini. “Non riuscivi a starle dietro. Era un uragano, uno stimolo straordinario al fare, e fare bene”. Fino all’ultimo ha implorato i governi: “Non cancellate il futuro dei giovani ricercatori”.
All’età di circa 90 anni è diventata parzialmente cieca a causa di una maculopatia degenerativa. Malgrado questo handicap il suo ottimismo non è mai venuto meno. “Bisogna dimenticarsi di vivere. È questo – diceva – il segreto per avvicinarsi a qualcosa che può assomigliare all’illusione dell’immortalità”. Rita Levi Montalcini ogni sera andava a letto alle undici. Ogni mattina si alzava alle cinque. “Non mi interessano né il cibo, né il sonno” diceva. Mangiava una volta al giorno, a pranzo. La sera si concedeva al massimo un brodo e un’arancia. «Sto bene. Malgrado la diminuzione della vista e dell’udito. Mai avuto una malattia». Aveva un apparecchio acustico nelle orecchie, leggeva grazie a un video ingranditore. «Mi aiutano i miei collaboratori». Due in particolare, Pietro Calissano che era con lei da quarant’anni e Piero Ientile. «Il mio cervello funziona meglio di quando avevo vent’anni. Ho deciso di utilizzarlo di più proprio nell’ultima tappa del mio percorso. Penso di continuo, mi aiuta la passione per il mio lavoro».
Continuava la ricerca sull’Nfg, la sigla dell’aproteina, che stimola la crescita delle cellule nervose, uno studio sulle malattie neurovegetative, che aveva cominciato più di mezzo secolo fa.
“Mi occupo della fondazione creata assieme a Paola, in memoria di mio padre, per il conferimento di borse di studio a studentesse africane a livello universitario, con l’obiettivo di creare una classe di giovani donne che svolgano un ruolo di leadership nella vita scientifica e sociale dei loro paesi”. Amatissima com’era, in Italia e all’estero, resterà una figura indimenticabile. Si è spenta nella sua casa di Roma a 103 anni, alle 13 e 30 circa del 30 dicembre 2013. Era la diva della scienza. Una piccola, grande donna, che affascinava per l’eleganza sempre impeccabile e incantava per l’intelligenza, la tenacia, lo slancio verso il futuro, a dispetto dell’età. “Il corpo faccia quello che vuole”, disse nell’intervista pubblicata nel primo numero di Wired Italia, che le dedicò la copertina per i suoi cent’anni. “Io non sono il corpo, io sono la mente”.
Premio Nobel più longevo della storia, ha consacrato la vita alla ricerca, battendosi fin da giovanissima e sfidando persino la vecchiaia con spirito indomito.
Sull’origine della sua capacità di osservazione, Rita Levi Montalcini ha sempre avuto le idee chiare, attribuendo parte del suo successo al maestro Giuseppe Levi, il professore di istologia di Torino le cui lezioni formarono altri due Nobel per la medicina: Salvador Luria e Renato Dulbecco, anche lui scomparso recentemente. Era lui uno degli amici più cari della scienziata; in un’intervista a Repubblica nel 2008 Rita rivelò: “quando avevo tre anni decisi che non mi sarei mai sposata” e in un’altra a Omni nel 1998 spiegò che anche nel matrimonio fra due persone brillanti “una finisce col soffrire perché l’altra ha più successo”.
Lei, che di complessi non soffriva, non si è mai lamentata degli occhi, che non vedevano quasi più e delle protesi acustiche, che la mantenevano in contatto con gli altri. E fino all’ultimo ai governi italiani ha continuato a chiedere: “Non cancellate il futuro di tanti giovani ricercatori che coltivano la speranza di lavorare in Italia”.
È stata l’ultima ad andarsene dei “magnifici tre”, i tre compagni d’università – lei, Renato Dulbecco e Salvador Luria – che cominciarono gli studi a Torino sotto la guida del maestro Giuseppe Levi, illustre studioso di tessuti nervosi, arrivando a Stoccolma per ritirare il premio più ambito.
IO E RITA
Uno dei suoi pensieri più celebri è anche mio:
“Meglio aggiungere vita ai giorni che non giorni alla vita”.