A cura di Rosa Bianco
La mia seconda monografia al femminile è dedicata a Eleonora Pimentel Fonseca.
Il mio incontro con lei risale ai miei diciassette anni, quando da studentessa alle superiori mi innamorai delle idee dell’illuminismo europeo (eccellevo negli studi di filosofia), che avevano ispirato la Rivoluzione Francese e quella Partenopea del 1799. Tra i patrioti della Rivoluzione Partenopea spiccava Eleonora Pimentel Fonseca per le sue alte doti di intelligenza, di coraggio e di valore. Più tardi il libro di Enzo Striano ‘Il resto di niente’ e il film che da questo fu tratto suggellarono la mia ammirazione per Eleonora. Nel 1999, in occasione delle celebrazioni del duecentenario della Rivoluzione Partenopea, seguii tutto il ciclo di conferenze, tenute da Gerardo Marotta e dal prof. Guido D’Agostino, curate dall’Istituto Italiano Studi filosofici di Napoli, che mi piacquero molto.
Eleonora nacque a Roma il 13 genn. 1752 da Clemente e Caterina Lopez de Leon, di antica famiglia spagnola, trasferitasi nel Portogallo.
Fin dall’adolescenza la F. apparve dotata di un non consueto insieme di naturali talenti che trovarono nutrimento nella sua prima formazione culturale: l’itinerario elettivo che ella, nei primi anni della sua giovinezza, percorse fu quello colto, illuminato, cosmopolita che offriva la Napoli della seconda metà del XVIII secolo, in cui confluivano due tra i motivi ispiratori dell’epoca, la necessità di una riforma pedagogica che favorisse il diffondersi, accanto alla tradizione classica e giuridica, di una mentalità scientifica e tecnica e la fede nell’ingegno delle donne.
Dalle testimonianze in suo favore rilasciate nel 1784 in occasione del processo di separazione che la oppose al marito emergono più minuti particolari sul suo impegno e sulla sua volontà di primeggiare. L’italiano, il portoghese, il francese furono lingue che scrisse correntemente, l’inglese quella di molte sue letture. Prese lezioni di greco, latino e storia antica da G.V. Meola, che conobbe alle “conversazioni” che si tenevano in casa del marchese di Varolla, F. Vargas Maciucca, dove il Meola la udì “recitare eleganti versi ed altre poesie dalla medesima composte”. E F.M. Guidi, matematico, allievo dell’abate V. Caravelli, frequentatore della casa paterna dove pure convenivano “vari letterati” che “su varie scienze le discorrevano”, acconsentì a istruirla sui principi della matematica, avendola trovata “molto portata per le scienze”.
Il campo delle sue prime prove fu la poesia. Sedicenne, nel 1768, diede alle stampe Il tempio della gloria (Napoli 1768), un epitalamio per le nozze di Ferdinando IV e Maria Carolina d’Austria, in cui già si firmava con il nome accademico (anagramma del suo) di Epolnifenora Olcesamante, aggregata all’Accademia dei Filaleti come, poco più tardi, lo sarà all’Arcadia con quello di Altidora Esperetusa. Seguì una serie di sonetti che, apparsi nella tradizionale forma della partecipazione a raccolte poetiche, documentano dei suoi rapporti con eruditi e letterati non solo napoletani.
Al coro delle lodi che subito le tributò la società colta napoletana si aggiunse la voce di P. Metastasio, al quale la F. aveva inviato i suoi lavori confessando che la propria ispirazione era maturata alla “assidua lettura degli scritti suoi”.
Furono questi per la F. anni che possono ben essere considerati come quelli della “sua fioritura cosmopolita”. Mentre infatti la relazione letteraria con il Metastasio raggiungeva il culmine, iniziò uno scambio epistolare con Voltaire.
Nel 1778 i Fonseca divennero a tutti gli effetti sudditi del Regno e, con regio decreto, venne loro riconosciuta la nobiltà portoghese. Nel febbraio la F. sposò Pasquale Tria de Solis, di famiglia appartenente alla piccola nobiltà napoletana, tenente del reggimento nazionale del Sannio. La sua vita familiare fu infelicissima. Nell’ottobre dello stesso anno le nacque il figlio Francesco; il piccolo non sopravvisse che otto mesi e due successive gravidanze, interrotte per i maltrattamenti subiti e per il clima di violenza dal quale finì per essere sommersa la sua vita domestica, le tolsero ogni ulteriore speranza di maternità, minandole gravemente la salute. La perdita del figlio le ispirò cinque sonetti (Sonetti di Altidora Esperetusa in morte del suo unico figlio, Napoli 1779), che possono considerarsi per i versi caldi, ricchi di sentimento e per l’assenza di accenti retorici tra i suoi componimenti migliori.
La Fonseca pubblicò anche un’Ode elegiaca – testimonianza, per i particolari sui quali si sofferma, del suo interesse per le scienze naturali – dedicata al chirurgo che l’aveva assistita, salvandole la vita, in occasione di un aborto. Sono questi gli unici suoi componimenti che rivestano carattere personale.
Nel 1780 partecipò alla manifestazione di apertura della Reale Accademia di scienze e belle lettere istituita nel 1778 da Ferdinando IV con l’intento di promuovere le discipline scientifiche e favorire l’aggregazione intellettuale: una cronaca del tempo riporta che “si recitarono sette sonetti, sei de’ quali di altrettanti poeti, ed uno di una poetessa, D. Eleonora de Fonseca Pimentel, detta la ” Portoghesina”.
Il contrasto con il marito, che inizialmente trasse forse motivo dalla disparità di condizione e di modi delle due famiglie – colti e di vaste relazioni i Fonseca, tradizionalisti, appartenenti a quel ceto di piccola nobiltà assai vicino all’ambiente popolaresco, i Tria de Solis – si risolse ben presto in un insanabile dissidio, nell’ansia per un dissesto patrimoniale che ridusse la Fonseca a “mendicare le cose più necessarie”, nelle privazioni di una esistenza appartata nella quale “veniva a me impedito il libero sfogo con chiunque, spiato ogni mio passo o letto intercettato qualunque rnio scritto o biglietto”, appuntandosi il risentimento dei marito soprattutto sui suoi studi e le sue letture, tanto che un giorno “giunse al pazzo furore di voler bruciare due libretti di epistole inglesi contenenti la storia di quell’isola ed altri di belle lettere francesi stampati in Olanda (lingue ambedue a lui ignote) traendo argomento dalla lingua e dal luogo che dovessero essere ereticali ed affermando che egli come marito poteva e voleva guidare le mie azioni e la mia coscienza”. A tale convivenza pose fine nel 1784 il padre Clemente che diede avvio a una richiesta di separazione, a seguito della quale la Fonseca poté lasciare la casa coniugale.
Il processo che ne seguì era appena terminato in fase istruttoria quando, nel 1785, il marito, per ragioni rimaste ignote, si ritirò dalla causa rinunziando a ogni azione legale. Lo stesso anno era morto il padre della Fonseca ed ella dovette trovarsi in difficoltà se, nel maggio, richiedeva con supplica al re un sussidio mensile che le venne concesso in ragione di 12 ducati.
Della sua attività negli anni successivi fino al 1798, quando venne imprigionata e quando ormai a Napoli era giunto a maturazione quel processo che vide tanta parte del ceto intellettuale riformista aderire ai principi e all’azione rivoluzionaria, si hanno scarse notizie, di modo che non è agevole seguire il mutamento e la conversione del suo pensiero.
Nel contempo seguiva con interesse gli avvenimenti francesi e presso di lei si raccoglievano per commentare le notizie della Francia riportate dal Moniteur – che ella riceveva dal rappresentante diplomatico del Portogallo – alcuni di coloro, come A. Giordano e il Cestari, che saranno poi implicati in attività cospirative. Nelle carte giudiziarie il suo nome si incontra per la prima volta negli anni 1794 e 1795. Gli avvenimenti di quell’anno, la scoperta di una congiura giacobina, il processo che ne seguì, la sentenza di morte per V. Galiani, V. Vitaliani ed E. De Deo, il supplizio soprattutto di quest’ultimo, della cui figura i contemporanei “si innamorarono” e al quale la F. dedicherà un commosso ricordo sulle pagine del Monitore napoletano segnarono probabilmente, anche sul piano emozionale, il punto estremo di una crisi intellettuale e politica. Nel 1795 le era morto il marito e intorno a quella data veniva ormai considerata sospetta. Due anni dopo le fu sospeso il sussidio reale, che mensilmente percepiva dai Banchi della capitale e il 5 ottobre 1798 fu imprigionata e condotta nel carcere della Vicaria.
La Fonseca rimase alla Vicaria fino alla metà del gennaio del 1799 quando, a seguito dell’armistizio siglato a Sparanise dal vicario generale F. Pignatelli di Strongoli con le forze francesi, i lazzari presero d’assalto le carceri cittadine liberando insieme con i detenuti comuni quelli politici. Ella prese subito parte alle riunioni del comitato di patrioti che, a fronte della minaccia di anarchia popolare o del tentativo di un governo aristocratico degli eletti della città, propugnava l’instaurazione di una repubblica democratica. Insieme con G. Logoteta, D. Bisceglia, G. Schipani fu tra quei “pochi intrepidi cittadini” che, introducendosi con uno stratagemma il 19 gennaio in Castel Sant’Elmo, il 20 se ne impadroniva, aprendo così la via all’ingresso dei Francesi in Napoli, e la mattina del 22 proclamava la Repubblica Napoletana. In Sant’Elmo la Fonseca compose un inno alla libertà, non pervenutoci, le cui strofe suonavano “di odio al re e giuramento alla libertà”.
Nella breve vita della Repubblica la Fonseca si ritagliò uno spazio suo proprio divenendo con il Monitore napoletano la più celebre “cronista”. A Napoli, infatti, come in tutti gli altri Stati italiani liberati dai Francesi subito nacque una nuova stampa politica della quale il Monitore fu l’esemplare più notevole.
La pubblicazione del giornale venne annunziata con un manifesto di avviso privo dell’indicazione della data ma il cui contenuto C. De Nicola riportava al 29 gennaio: “si è annunziata la pubblicazione di un Monitore napoletano che darà notizia di tutte le operazioni del governo”.
Del Monitore la Fonseca fu comunque, sin dal primo numero, l’unica protagonista e come tale venne menzionata dalla diaristica napoletana a lei contemporanea. Sembra, non sapendosi di altri collaboratori, che la Fonseca scrivesse da sé la più parte degli articoli, informazioni, precisazioni che il giornale andava pubblicando e che pure direttamente raccogliesse le notizie partecipando alle sedute del governo provvisorio e alle manifestazioni e cerimonie della Repubblica. Dalle colonne del giornale ella si misurò con pressoché tutti i problemi cruciali che si posero in quei pochi mesi affrontandoli con stile semplice ed efficace e con notevole indipendenza di pensiero.
Essa credeva, in questo ricalcando il grande progetto giacobino dell’educazione politica del popolo, che uno dei principali compiti della Repubblica fosse l’azione pedagogica rivolta verso la plebe. “La plebe diffida dei patrioti perché non l’intende” scriveva sul Monitore, mentre invitava “qualche zelante cittadino a pubblicare delle civiche arringhe nel patrio vernacolo napoletano, onde così diffondere la civica istruzione in quella parte del popolo che altro linguaggio non ha”, e tentava una prima riflessione sui rapporti che la Repubblica doveva intrattenere con la plebe. La propaganda in dialetto napoletano, una gazzetta in vernacolo che, a spese del governo, fosse letta nelle piazze e riportasse i più importanti provvedimenti presi dalla Repubblica, teatri di burattini e cantastorie che trattassero “soggetti democratici”, missioni civiche create sul modello delle preesistenti missioni religiose e affidate a ecclesiastici che avessero pratica di “persuasiva popolare” sono alcuni dei rimedi che la Fonseca andò proponendo.
Quando ormai l’armata francese si apprestava a lasciare Napoli, la F. dapprima non volle credere alle “voci ingiuriose” per poi fare appello al “coraggio” e osservare che “un popolo non si difende mai bene che da se stesso … perché la libertà non può amarsi a metà, e non produce i suoi miracoli che presso popoli tutti affatto liberi”. Mentre gli avvenimenti si succedevano drammatici e rapidissimi sempre più, pubblicò, negli ultimi numeri dei giornale, solo notizie ufficiali e in quello dell’8 giugno, che fu l’ultimo, ancora riportava voci di vittorie repubblicane.
Il 13 di giugno il cardinale F. Ruffo entrò nella città e il 19 fu firmata la capitolazione, in base alla quale i patrioti, che vi si erano rinchiusi, poterono lasciare i castelli e imbarcarsi sulle navi che dovevano portarli a Tolone. Ma il 30 giugno il re, rientrato a Napoli, dichiarava nulla la capitolazione e istituiva la Giunta di Stato. Dei “rei di Stato” furono compilate due liste delle quali una riservata agli ottanta patrioti oggetto della capitolazione con il Ruffo; per questi non si poteva eseguire la condanna a morte senza l’assenso regio. Non è certo che la F. si trovasse in questa lista; nell’agosto era comunque prigioniera sulle navi all’ancora in porto tra coloro che erano in attesa di giudizio. Per molti, la cui responsabilità fu ritenuta più lieve, venne autorizzata la partenza per la Francia e a tal fine fu fatta loro firmare una “obliganza penes acta”, in virtù della quale accettavano la condanna all’esilio rinunziando al processo: la Fonseca era tra questi. Mentre le navi si apprestavano a partire la Giunta richiese lo sbarco di altri dieci patrioti per i quali, si disse, vi era stato un errore. La Fonseca non figurava in questo elenco; ma due giorni dopo giunse la richiesta di far sbarcare anche lei, che venne rinchiusa nel carcere della Vicaria.
Il processo fu istruito dal consigliere V. Speciale, il più intransigente dei giudici della Giunta, e il 17 agosto fu pronunziata la sentenza di morte per impiccagione. La Fonseca chiese che la condanna fosse eseguita tramite decapitazione, così come spettava ai nobili del Regno, ma il privilegio le fu rifiutato con il pretesto che il re aveva riconosciuto ai Fonseca solo la nobiltà portoghese. Il 18 fu trasferita nella cappella del castello del Carmine e assistita dai padri della Compagnia dei Bianchi della giustizia. Il pomeriggio del 20 agosto 1799 insieme con altri sette condannati, tra i quali G. Colonna, G. Serra, il vescovo M. Natale, fu condotta sulla piazza del Mercato, dove “vestita di bruno, colla gonna stretta alle gambe”, per ultima salì sul patibolo.
Io e Eleonora: Kant scriveva nel 1784, alla vigilia della Rivoluzione Francese: ‘L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. […] La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. […] Dopo di averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e di avere con ogni cura impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori della carrozzina da bambini in cui li hanno imprigionati, in un secondo tempo mostrano a essi il pericolo che li minaccia qualora cercassero di camminare da soli. […] A questo Illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi». La Marchesa Eleonora de Fonseca Pimentel incarnò e testimoniò nel secolo dei lumi questa inarrestabile vocazione di crescita della civiltà che si riallacciava alla più pura e radicale ricerca-della-verità-e-della-felicità da cui nell’antichità greca era sorta la filosofia (occidentale). Ecco perché Eleonora é la mia icona, anche da educatrice!!!!
Nelle mie ricerche storiografiche su Eleonora mi imbatto nel ‘Nuovo Monitore Napoletano’ diretto dalla storica e scrittrice Antonella Orefice, che ha dedicato molti suoi studi e ricerche ad Eleonora:
www.nuovomonitorenapoletano.it
Nel “Nuovo Monitore Napoletano” trovo il link alla Fondazione Adriana Valerio – per la Storia delle Donne (Adriana Valerio, amica di Adriana Zarro, era negli anni ’80 assistente alla cattedra di Storia del Rinascimento, all’Università Federico II del mio amato ed emerito prof. Romeo De Maio, ed era colei che ci seguiva nei seminari e agli esami. Grande intellettuale Adriana, che ho poi rivisto dopo circa 25 anni al Centro Hurtado a Scampia, della serie: tutto torna!!! )
Fondazione Valerio per la Storia delle Donne
www.fondazionevalerio.org
Scopo della Fondazione è far emergere e valorizzare il pensiero e le azioni delle donne di ogni epoca e di ogni contesto geografico e culturale, per consegnare alla memoria storica preziosi contributi sinora ignorati.