A cura di Rosa Bianco
Artemisia Gentileschi (1593 – 1652/1653), figlia del noto pittore Orazio Gentileschi (1563-1639) fu una delle prime donne pittrici ad ottenere il riconoscimento nel mondo maschilista d’arte post- rinascimentale. Fino ad allora le pittrici si erano limitate alla ritrattistica e a pose imitative, Artemisia fu la prima donna a dipingere grandi scenari storici e religiosi: “Seicento” di corpi, devozione che passa su muscoli nervosi, carni imperlate di sudore, fiotti di sangue e mantelli scuri tenuti come sfondo!
Bella che non te l’aspetti, una vita vissuta a contrastare la protervia maschile, orfana di madre a dodici anni, prima di sei fratelli, trascorreva il tempo e sperimentava il suo talento nella bottega di un padre mediocre e ne subiva le nauseanti frequentazioni.
La pittura é per lei un percorso di passione e al contempo di espiazione: unica pittrice tra le donne del suo tempo, una delle poche protagoniste dell’arte europea.
La sua vita è un continuo intreccio con la sua arte, tanto che é difficile distinguerle. L’apprendistato presso Orazio rappresentò per Artemisia, pittrice donna, l’unico modo per esercitare l’arte, essendole precluse le scuole di formazione: alle donne veniva negato l’accesso alla sfera del lavoro e la possibilità di crearsi un proprio ruolo sociale. Una donna non poteva realizzarsi puramente come lavoratrice, ma doveva perlomeno sostenersi col proprio status familiare; il lavoro femminile non era riconosciuto alla luce del sole, ma si realizzava per lo più “clandestinamente”, come dimostrano i registri delle tasse e i censimenti. Alla fine del ‘500 la figlia del pittore Orazio Gentileschi a soli quindici subì un clamoroso episodio di violenza, da parte di colui che le insegnava i segreti della prospettiva: un amico di suo padre, Agostino Tassi.
Il padre denunciò il Tassi che dopo la violenza, non aveva potuto “rimediare” con un matrimonio riparatore. Il problema è che il pittore era già sposato (e nel frattempo manteneva anche una relazione incestuosa con la sorella della moglie). Del processo che ne seguì è rimasta esauriente testimonianza documentale, che colpisce per la crudezza del resoconto di Artemisia e per i metodi inquisitori del tribunale. Gli atti del processo (conclusosi con una lieve condanna del Tassi) hanno avuto grande influenza sulla lettura in chiave femminista, data nella seconda metà del XX secolo, alla figura di Artemisia Gentileschi.
È da sottolineare il fatto che Artemisia accettò di deporre le accuse sotto tortura, consistite queste nello schiacciamento dei pollici, che per una pittrice era un danno ancora peggiore, con uno strumento usato ampiamente all’epoca. Questa la testimonianza di Artemisia al processo, secondo le cronache dell’epoca:
“Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne” (Eva Menzio, Artemisia Gentileschi, Lettere precedute da Atti di un processo di stupro, Milano, 2004).
La tela, che raffigura Giuditta che decapita Oloferne (1612-13), conservata al Museo Capodimonte di Napoli, impressionante per la violenza della scena che raffigura, è stata interpretata in chiave psicologica e psicoanalitica, come desiderio di rivalsa rispetto alla violenza subita. Dopo la conclusione del processo, Orazio combinò per Artemisia un matrimonio con Pierantonio Stiattesi, modesto artista fiorentino, che servì a restituire ad Artemisia, violentata, ingannata e denigrata dal Tassi, uno status di sufficiente “onorabilità”. La cerimonia si tenne il 29 novembre 1612.
Poco dopo la coppia si trasferì a Firenze, dove ebbe quattro figli, di cui la sola figlia Prudenzia visse sufficientemente a lungo da seguire la madre nel ritorno a Roma poi a Napoli. L’abbandono di Roma fu quasi obbligato: la pittrice aveva ormai perso il favore acquisito e i riconoscimenti ottenuti da altri artisti, messa in ombra dallo scandalo suscitato, che fece fatica a far dimenticare (come dimostrano anche gli epitaffi crudelmente ironici alla sua morte).
Il trauma dello stupro e il processo ebbero un impatto sulla pittura di Artemisia: le sue rappresentazioni grafiche sono tentativi catartici e simbolici per affrontare il dolore fisico e psichico. Le eroine della sua arte, in particolare Giuditta, sono donne potenti che sono in grado di vendicarsi su malfattori maschili, quali Oloferne, il grande generale assiro. Il suo stile è stato fortemente influenzato dal realismo drammatico e marcato chiaroscuro (chiaro e scuro a contrasto) di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1573-1610).
Dopo la morte, lei scivolò nel dimenticatoio, i suoi lavori furono spesso attribuiti a suo padre o altri artisti. La storica dell’arte, esperta di Artemisia, Mary D. Garrard osserva che Artemisia “ha subito un abbandono, che è impensabile per un’artista del suo calibro”. Il rinnovato interesse nei confronti di Artemisia negli ultimi anni le ha restituito il valore che meritava come pittrice di talento del XVII secolo e una delle più grandi artiste del mondo. Il primo libro dedicato a lei, Artemisia Gentileschi. The Image of the Female Hero in Italian Baroque Arts, da Mary Garrard è stato pubblicato nel 1989; la prima mostra su di lei si è tenuta a Firenze nel 1991.
Negli anni ’70 del secolo scorso Artemisia, a partire dalla notorietà assunta dal processo per stupro da essa intentato, diventò un simbolo del femminismo internazionale, con numerose associazioni e circoli ad essa intitolate. Contribuirono all’affermazione di tale immagine la sua figura di donna impegnata a perseguire la propria indipendenza e la propria affermazione artistica contro le molteplici difficoltà e pregiudizi incontrati nella sua vita travagliata.
Io e Artemisia
Dopo averla solo sfiorata negli studi universitari di storia dell’arte, rincontrai Artemisia Gentileschi una decina di anni più tardi, allorché un caro amico mi regalò il libro di Alexandra Lapierre, figlia del noto Dominique, “Artemisia” (1999-2000) e fu un amore ritrovato, da allora mai più lasciato! A Napoli arriva trafelata nel 1630, dopo una vita di vicissitudini. Qui incontra Caravaggio e ne resta estasiata. La città le regala una tavolozza di colori che lei mescola e fa esplodere nelle sue tele. È affascinata dai colori passionali, intensi, luminosi di Caravaggio, dalla sua violenza espositiva, ma allo stesso tempo vuole raccontare nelle sue tele storie di donne, raccontare, invocare, creare legami femminili, solidarietà di genere.
Artemisia rinasce a Napoli. Napoli compie di questi miracoli!
Anche a me é accaduto: dopo gli studi universitari mi sentivo grigia e spenta, senza una strada da percorrere ben definita. Trovai lavoro in uno studio di architettura nei pressi di piazza Municipio. Napoli mi raccolse e mi accolse, con la sua gente, i suoi vicoli, le sue tradizioni, la sua allegria, seppur tra i mille problemi di una grande città, che pur sempre fu e resta capitale non più di un regno ma di un intero bacino della nazione, quello meridionale. Napoli è una città che regala energia, vigore, creatività, insieme ad una grandissima voglia di vivere e di gioire! Una città che ti cambia, che ti fa crescere, che ti fa diventare persona completa. Il lavoro allo studio di architettura mi impegnò due anni e lì, cullata dal sole e dalle bellezze della mia Napoli, man mano maturavo e costruivo il mio futuro. Partecipai al concorso ordinario per insegnare alla scuola elementare nel 1990 e lo superai. Ciò che sono ora, a distanza di più di vent’ anni, lo devo in gran parte a quell’esperienza, oltre che agli studi e all’educazione ricevuta.
Così accadde ad Artemisia. Napoli sembra che l’acquieti, l’impeto drammatico si placa, la pittrice dirige il suo pennello verso l’osservazione naturalistica. L’ispirazione caravaggesca si evolve: all’orrenda immagine dei vecchioni che molestano Susanna, si contrappone la straordinaria figura della fantesca, che aiuta e sostiene Giuditta nella punizione vendicativa. Artemisia in quella tela esprime finalmente quella solidarietà femminile tanto anelata! Artemisia a Napoli si riscatta e diventa donna compiuta!!