Venerdì 12 novembre, ore 18:20, aeroporto di Capodichino.
L’aereo è atterrato in anticipo, i nostri sguardi sono fissi alla porta, una moltitudine di domande ci riempiono la testa: la riconosceremo? Come sarà vestita? Cosa le diremo? Per la fretta abbiamo anche dimenticato di portare il classico cartello preparato per farci riconoscere.
Ecco, la porta si apre e compare lei – come avremmo fatto a non riconoscerla – pelle color ebano, capelli cortissimi, un sorriso caloroso, una felpa nera, ma dalla cerniera facevano capolino collane multicolori, una gonna ampia coloratissima e sandali di cuoio da cui uscivano ampiamente le dita dei piedi con delle unghie disegnate. Rebecca aveva con sé solo un pesantissimo zaino sulle spalle, il suo unico bagaglio. L’abbracciamo calorosamente, ha un buon odore, quasi speziato, abbiamo subito la sensazione della sua grande forza, mista ad una regalità innata.
Prendiamo un caffè, per lei un the con latte e zucchero, sarà la sua bevanda anche in pizzeria. Dal suo zaino spuntano tre anelli di perline, confezionati da lei, un regalo per noi, inaspettato e graditissimo.
Davanti ad una donna come Rebecca l’unica cosa che si puo’ fare è portarle lo zaino.
In macchina ci parla subito del suo villaggio, della sua terra, delle abituali violenze che le donne subiscono in Kenya. Ma il suo sguardo non è triste, non c’è rassegnazione nei suoi occhi ma speranza.
Andiamo in pizzeria, la pizza non le piace, mangerà pollo e patatine e berrà tanto the con latte, è regale anche quando mangia, a piccoli bocconi con un poco di titubanza, quella giusta verso qualcosa che non si conosce. E’ stanca, dopo due giorni di viaggio, l’accompagniamo al B&B, saliamo con lei, le mostriamo la sua camera e la cucina per la colazione. Ci salutiamo affettuosamente, dandole appuntamento nella tarda mattinata del giorno dopo.
13 novembre ore 11:30. Il traffico del centro è sempre caotico, parcheggiamo il più vicino possibile a via Tribunali, dove alloggia Rebecca, via Duomo è piena di gente, di turisti. È già pronta nell’androne del palazzo, in compagnia di una giornalista tedesca, Birgit Virnich, che segue spesso le sue trasferte. Indossa gli abiti coloratissimi tipicamente kenioti ed è adornata da collane che lei stessa realizza. È bellissima, ma ancora di più della bellezza sono il suo portamento e la sua fierezza a colpirci. Passeggiando la gente incuriosita si ferma a guardarla, essere al suo fianco è motivo di gioia.
Ci fermiamo ad un bar, insieme a Birgit per un caffè. Per Rebecca l’ennesimo the al latte, non riusciremo a farle assaggiare un caffè. Ci rimettiamo in macchina, verso Scampia. Prima tappa al Centro Hurtado dove ad aspettarla ci sono gli studenti del liceo “Elsa Morante” e dell’Istituto alberghiero “Vittorio Veneto”. Abbracci, foto, poi Rebecca si racconta ai ragazzi, affascinandoli. Le mostriamo il Centro Hurtado, rimane entusiasta nel vedere la sartoria “La Roccia” e la borsa realizzata per lei.
Il tempo ci è nemico, un pranzo veloce per farle conoscere la cucina italiana: pasta al filetto di pomodoro e basilico, latticini e melanzane sotto’olio. Rebecca, inizialmente titubante alla vista dei rigatoni, conclude il primo con la zuppetta lasciando il piatto pulito. E’ già tardi bisogna correre al liceo “Elsa Morante” per allestirne i locali. Quando arriviamo è già tutto a buon punto, presentiamo Rebecca alle persone man mano che arrivavano; è un susseguirsi di saluti, abbracci, domande, gesti, presentazioni, foto e interviste fino all’inizio dell’incontro-dibattito. Rebecca è serena, sorride con gli occhi.
Guardando il documentario sulle donne di Umoja per la prima volta negli occhi di Rebecca c’è un’altra espressione. È palese la sua grande forza, il coraggio ma anche lo sforzo e la sofferenza. Quello sforzo e quella sofferenza che trasparirà anche nella sua testimonianza, di chi lotta quotidianamente contro una cultura violenta e prepotente, che non rispetta le donne in quanto persone,violandone i diritti.
Un applauso fortissimo, la platea è tutta in piedi, sarà difficile riprendere il filo del dibattito; davanti a lei tutte le nostre problematiche di periferia trascurata e senza una visione di genere, scompaiono. Lei in questo momento ci ha fatto capire cosa è il riscatto, cosa è la dignità e liberandoci dall’obbligo del coraggio.
A fine serata, quando tutto è finito ed è il momento dei saluti, le parole si fermano. Non ci rimane che abbracciarla forte forte, con la speranza di un nuovo incontro. “Rebecca we love you. Don’t forget about us , thanks” .
Patrizia Palumbo & Fabiana Romano