A cura di Rosa Bianco
Della più grande poetessa di Grecia sappiamo che visse tra il 640 e il 570 a.C. nell’isola di Lesbo, dove fondó un collegio femminile, una sorta di scuola per fanciulle chiamata “tìaso”, in cui si insegnavano le belle arti, letteratura, musica e danza: tutto ciò insomma che una giovane di famiglia aristocratica doveva imparare per divenire una donna degna del suo rango. Nel nome “tìaso” c’è una sfumatura religiosa (il verbo “θυσία” in greco significa “sacrificare”) ed è lecito pensare che nella scuola di Saffo venissero onorate di veri e propri riti la divinità di Venere e le Muse.
In una società prettamente maschilista come quella greca, Saffo risultò senz’altro figura trasgressiva, difficile da accettare: troppo forte il suo temperamento e troppo palese la sua superiorità di maestra e d’artista, rispetto alla norma; troppo in contrasto insomma coi costumi del tempo (siamo ancora nella Grecia arcaica, in cui la vita sociale era dominata da schemi e principi piuttosto rigidi e decisamente conservatori).
Contro l’outsider Saffo lanciarono strali velenosi soprattutto i commediografi attici, tramandandoci il modello, o meglio la caricatura, di una Saffo brutta e deforme, cosa che non corrispondeva al vero ( il suo contemporaneo Alceo di Mitilene ce le descrive leggiadramente “dolce, coronata di viole”).
L’opera di Saffo, di eccezionale vigore e intensità espressiva, è il primo grande esempio di poesia individualistica, soggettiva, in cui l’io si impone come protagonista e, senza falsi pudori, opera scelte, afferma le proprie esigenze, i propri desideri e sogni, indipendentemente da tradizioni o conformismi. I temi delle sue poesie – essenzialmente “liriche”, anche perchè venivano accompagnate da strumenti musicali a corda – sono i temi universali ed eterni dell’amore, della solitudine, del dolore. Dea sovrana di questo universo poetico è la Bellezza, concepita come una continua rivelazione del sacro. Eros viene cantato come un demone dalla potenza invincibilmente distruttiva. Se l’atmosfera è quella squisitamente femminile del tìaso, e l’amore di cui si parla è quello dall’isola natale della poetessa si chiamò poi “lesbico”, il tono e la qualità delle immagini, l’ardore “mitico” della passionalità e la perizia tecnica raggiungono esiti di tale possanza da superare qualsiasi voce maschile di quei tempi.
Di Saffo ci sono giunti una sole ode intera e 213 frammenti. La sua sterminata produzione fu raccolta dagli antichi studiosi in nove libri: canti d’amore, poemetti mitologici, inni ed epitalami, ovvero canti di nozze.
La fortuna postuma di Saffo è stata immensa, sia nel mondo greco che nel Medio Evo e nell’età moderna. Definita da Platone “decima musa”, da Strabone “un miracolo”, fu tradotta da Catullo nell’ode “Ille mi par esse deo videtur – un dio mi sembra l’uomo che seduto” e dal nostro Foscolo. Leopardi, nella canzone “Ultimo canto di Saffo”, proietta sulla poetessa il suo disperato senso di emarginazione e mostra di accogliere l’inconsistente leggenda del suicidio di Saffo, per una bruciante e non corrisposta passione nei confronti non di una fanciulla, ma del bellissimo giovane Faone.
Io e Saffo
QUALE DOLCE MELA
Quale dolce mela che su alto
ramo rosseggia, alta sul più
alto; la dimenticarono i coglitori;
no, non fu dimenticata: invano
tentarono raggiungerla.
(Frammento 105 a – Traduzione Salvatore Quasimodo)
Questo celebre frammento di Saffo è parte di un epitalamio, ovvero il canto nuziale destinato ad essere letto nella camera degli sposi. La sposa in questo caso non era più giovanissima, e Saffo scherzosamente la paragona ad una bella mela su un ramo alto, ormai matura e pronta da cogliere: non è che nessuno finora non l’abbia voluta sposare, solo non c’è riuscito perché non ha saputo come arrivare a lei…
Questo bellissimo frammento mi fu dedicato dal carissimo amico L.G. Salterini circa 25 anni fa e da allora non ho mai finito di ammirare la bellezza della poesia di questa straordinaria donna del mondo greco antico, ancora oggi di una modernità assoluta!