a cura di Rosa Bianco
Fu la prima “vera” giornalista italiana (non volendo considerare la Pimentel Fonseca, in quanto il suo «Monitore Napoletano» era essenzialmente un foglio politico), nacque a Patrasso nel 1856 da padre napoletano esule in Grecia e da madre greca. Già a partire dal 1860 visse a Napoli, dove frequentò la Scuola Normale e dove lavorò alcuni anni ai Telefoni dello Stato, per poi dedicarsi alla letteratura e al giornalismo. Prima di lei altre altre donne si erano dedicate al giornalismo, ma rimanendovi semplici collaboratrici e per lo più in giornali femminili. La Serao, invece, entrò presto a far parte della redazione di un quotidiano, «Capitan Fracassa», il che costituì un fatto nuovo nella stampa quotidiana.
Dopo il matrimonio con Eduardo Scarfoglio nel 1885, fondò con lui il «Corriere di Roma», cui diresse l’intera redazione. Nel 1888 tornò a Napoli, dove con il marito fondò e diresse prima il «Corriere di Napoli» e successivamente, nel 1892 «Il Mattino» che sarebbe diventato il quotidiano più diffuso dell’Italia meridionale. Dopo la separazione dal marito fondò da sola il quotidiano «Il Giorno» e diresse il settimanale letterario «La Settimana». Parallelamente all’attività giornalistica, svolta con passione e impegno quotidiano, si dedicò a quella letteraria e fu fecondissima scrittrice di varia ispirazione.
A partire dai suoi primi romanzi: La conquista di Roma, Fantasia, nei quali coesistono tardi segni di romanticismo decadente, misti a realismo da cronista, la sua produzione fu continua e la sua fama fu legata al romanzo che pubblicò a puntate sul «Capitan Fracassa» nel 1884: Il ventre di Napoli. Qui è la cronista che prevale nel piglio dell’inchiesta giornalistica e della denuncia delle responsabilità del governo nelle vicende dell’epidemia di colera, che in quell’anno colpi Napoli.
Pubblicò numerosi altri romanzi e novelle, tra i quali va ricordato nel 1891 Il paese di Cuccagna, in cui parla del gioco del lotto e più in generale della miseria di Napoli, tema questo già affrontato, come si é detto, dalla White Mario, che la Serao sviluppa con toni veristici. Più tardi, con l’avanzare del decadentismo e dell’estetismo, il suo verismo é sostituito da una scrittura che vuole essere più rarefatta e psicologica e che finisce, invece, per rappresentare realtà e situazioni inafferrabili e prive di concretezza, come nel romanzo Castigo del 1905. La critica contemporanea ha, comunque, rivalutato nel suo insieme la produzione di Matilde Serao, per la sua grande capacità di rappresentare il ritratto più vero e dolente della popolazione napoletana, in quel particolare momento storico, che va dagli anni settanta al primo Novecento. Morì nel 1927 a Napoli, la città di cui, con tanto acume, aveva saputo osservare e descrivere la trasformazione e la decadenza come di una Metropoli non piú capitale e di una società non più costituita di potente aristocrazia e infima plebe, ma di una massa indistinta di signori decaduti e di piccola borghesia senza risorse. Come giornalista e come scrittrice seppe osservare con lucidità ed esprimere con dolorosa mestizia il sacrificio del Sud, consumato in nome dell’unità della nazione e dell’arrivismo di Roma capitale e il conseguente senso di ineluttabile fatalità, che da allora avvolgerà l’intero meridione. Croce disse di lei «La Serao è tutta osservazione, mossa dal sentimento».
Io e Matilde:
Le pagine più belle di Matilde Serao sono da cercare nelle pagine che, in tono documentaristico e bozzettistico, ritraggono l’ambiente popolare napoletano, e nella analisi psicologiche, particolarmente sottili per i personaggi principali femminili. Scrive, per esempio, ne Il ventre di Napoli:
“Napoli è il paese dove meno costa l’opera tipografica; tutti lo sanno: gli operai tipografi sono pagati un terzo meno degli altri paesi. Quelli che guadagnano cinque lire a Milano, quattro a Roma, ne guadagnano due a Napoli, tanto che è in questo benedetto e infelice paese, dove più facilmente nascono e vivono certi giornaletti poverissimi, che altrove non potrebbero pubblicare neppure tre numeri. I sarti, i calzolai, i muratori, i falegnami sono pagati nella medesima misura; una lira, venticinque soldi, al più, trenta soldi al giorno per dodici ore di lavoro, talvolta penosissimo. I tagliatori di guanti guadagnano novanta centesimi al giorno. E notate che la gioventù elegante di Napoli, è la meglio vestita d’Italia: che a Napoli si fanno le più belle scarpe e i più bei mobili economici; notate che Napoli produce i migliori guanti.”