A cura di Rosa Bianco.
Emily Elizabeth Dickinson, la più grande poetessa d’America (probabilmente, con Saffo, la più grande poetessa mai esistita) nasce il 10 Dicembre 1830 in un piccolo villaggio del New England, Amherst, secondogenita dell’Avvocato Edward Dickinson, uno degli ottimati del paese; riceve un’educazione puritana piuttosto rigida, ma il suo temperamento fortemente critico e incline all’assoluta indipendenza intellettuale la libera da ogni sorta di imposizioni; è lei a scegliere l’isolamento perenne nella casa paterna, non per paura del mondo o impotenza ad agire, ma per un estremo bisogno di concentrazione in se stessa e una sorta di disprezzo nei confronti di qualsiasi convenzione sociale. Il solo mondo che interessa a Emily è quello interiore (e la Natura come «rappresentazione» di un ininterrotto spettacolo che allude misteriosamente all’iperuranio dell’Altrove).
«Dalla mia finestra ho per scenario/ un mare su uno stelo/ se all’uccello o al fattore sembra un pino/ non so proprio che dire…»; il suo sguardo è qualcosa di simile al terzo occhio dei mistici; così pure l’udito, che capta il suono magico delle sfere celesti («Lo Spirito è l’Orecchio consapevole»), il tatto, il gusto, tutti i sensi umani sono affinati alla massima potenza, ipereccitati in una sorta di tensione elettrica perenne, una continua auscultazione e captazione dell’assoluto. A tanta trascendenza (l’oggetto del desiderio sembra sempre l’Altro-da-sé) corrisponde però una straordinaria concretezza di immagini e di identificazioni, ed è proprio questo che rende unica la poesia ( e la vita) di Emily Dickinson: una continua compresenza di livelli (assoluto-relativo, spirituale-oggettuale, cosmico-domestico) che si compone, grazie al potere specifico di una volontà di ordinamento pressoché «onnipotente», in una «agghiacciante simmetria».
Lo sguardo acuminato di Emily si sposta di continuo, restando lei sempre saldamente al Centro, sul bordo ricurvo e cangiante della Circonferenza; mentre combina gli ingredienti del «black cake» nella vasta silenziosa cucina dell’Homestead, Emily sta scalando le «magic Perpediculars» dell’Infinito. I minimi trasalimenti atmosferici, il «certo taglio di luce» dei pomeriggi d’inverno, l’atomo pungente dell’aria che sancisce la dipartita dell’estate, la voce del «single Bird» che solca lo spazio sul far dell’alba e poi lascia lo stesso spazio vuoto, sono tutti messaggi, suggerimenti dell’unica Verità a cui bisogna restare fedeli: quella del Mistero.
In questo universo di essenze che ruolo possono rivestire gli esseri umani «viventi»? (Ai morti, che sono entrati nel Mistero, è data infatti ampia preferenza, rispetto ai vivi). Evidentemente, quello di compagni di cammino; o messaggeri, nei casi più importanti. Uno di questi «messaggeri» fu per Emily Ben Newton, giovane assai colto che veniva a fare partica di avvocatura nello studio del padre; un altro di rilievo fondamentale, fu il Reverendo Charles Wadsworth, che Emily vide in tutto due volte e a cui scrisse lettere devote e appassionate (in cui lo chiamava «Maestro»). La leggendaria «reclusione» di Emily all’età di trentadue anni, la scelta della veste bianca e la definitiva consacrazione della sua anima alla poesia, sono da qualche biografo collegate all’allontanamento del maturo Reverendo dal Nord America, avvenuto appunto nel 1862.
In realtà si trattò di un graduale (e prevedibile) «riduzione» dal superfluo all’indispensabile, dal transitorio all’essenziale, dal molteplice all’Uno. (« L’anima sceglie la sua compagnia/ poi richiude la porta. / Nel suo divino Stato / non insinuatevi oltre…»).
In vita, Emily non pubblicò nulla, se si eccettua qualche poesia su giornali e riviste, anche a sua insaputa. La sorella minore, Lavinia, che le fu sempre validissimo sostegno, trovò alla sua morte, nei cassetti della scrivania, 1775 poesie raccolte in fascicoletti accuratamente rilegati. I Bollettini dell’Immortalità erano scritti in uno stile troppo particolare ( già « ermetico», come ci si accorge a posteriori) per poter essere capito dai miopi e inadeguati contemporanei del «fenomeno» Emily Dickinson. Ci vollero tre generazioni (del resto, nemmeno il critico a cui Emily aveva mandato alcuni suoi versi, era riuscito a capacitarsi di tanta «spasmodica» concitazione e «irregolarità») per capire di che genio si trattasse. L’edizione critica del Johnson (Harvard, 1955), e numerosissimi studi hanno contribuito alla sua valorizzazione nel corso degli ultimi decenni. Il femminismo degli anni ’70, anche in Italia, ha voluto identificare la Emily «reclusa» con una sorta di Emily «pioniera» della «self made woman». Per la modernità impressionante del discorso – sia a livello formale che di contenuti – è senz’altro vero, come afferma acutamente Camille Paglia, che gli autentici contemporanei di questa vestale del Mistero siamo noi!
IO E EMILY
Emily ha scritto poesie sterminatamente belle. Io ve ne riporto alcune che prediligo:
Il cuore è la capitale della mente
Il cuore è la capitale della mente
La mente è uno stato singolo,
cuore e mente insieme
compongono un singolo continente.
La popolazione è: uno!
Numerosa quanto basta
Questa nazione estatica
Cercala: sei Tu!
L’anima si sceglie il proprio compagno
L’anima si sceglie il proprio compagno
Poi chiude la porta
così che la maggioranza divina
non possa più turbarla
Impassibile vede i cocchi che si fermano
laggiù al cancello
Impassibile vede un Re inginocchiarsi
alla sua soglia
Io so che tra tantissimi
L’anima ne scelse uno
Per poi sigillare come fossero pietra
le valve della sua attenzione.
Per fare un Prato
Per fare un Prato occorrono
Un Trifoglio ed un’Ape –
Un Trifoglio ed un’Ape –
E il Sogno –
Il Sogno basterà
Se le Api son poche –