“L’adolescenza è una scoperta personale durante la quale ogni soggetto è impegnato in
un’esperienza: quella di vivere; in un problema: quello di esistere” (D. Winnicott, 1965, pag. 50)
Introduzione
Se ancora molte donne considerano lo sport come un’esperienza transitoria, non certo un progetto di vita professionale da poter sposare, a Scampia c’è un gruppo di ragazze che sogna di poter giocare a calcio, di poter trasformare una passione in un progetto, un obiettivo, un traguardo da raggiungere con successo. Anche il calcio può essere uno sport da ragazze, nonostante sia un mondo sportivo storicamente appannaggio del genere maschile e conseguentemente maschilista. I media ne parlano ancora molto poco e, troppo spesso, le atlete – anche in campo agonistico – sono descritte in relazione al loro aspetto fisico e al proprio ruolo sociale (moglie, madre, ecc…), tuttavia negli ultimi decenni si è assistito ad un’inversione di rotta che ha visto aumentare la partecipazione femminile alla pratica di questo sport. In particolare, la nostra esperienza racconta di un gruppo di adolescenti, tra i 14 e i 20 anni, accomunate dalla passione per il calcio e impegnate su un doppio fronte: da un lato, lo sviluppo di un’identità personale adulta in un contesto socioculturale fortemente connotato da stereotipi di genere, dall’altro l’investimento di un progetto di vita, spesso complicato da dinamiche sociali e familiari che impediscono una riflessione su aspirazioni, desideri, obiettivi.
La letteratura psicoanalitica, a partire dagli anni ‘30, definisce l’adolescenza come una seconda nascita attraverso cui l’individuo raggiunge un nuovo equilibrio, dando il via alla strutturazione della propria identità. Sia A. Freud (1936) che i Laufer (1986) sottolineano l’aspetto dinamico e creativo della crisi adolescenziale e anche come essa rappresenti un vero conflitto di sviluppo, un punto di frattura. L’interesse dei giovani è in questo periodo incentrato in modo particolare sulle trasformazioni corporee dovute alla pubertà: ci si confronta con l’incertezza e l’indefinitezza e si è assorbiti dalle profonde trasformazioni fisiche, psichiche e relazionali tipiche dell’età. Il compito evolutivo dell’adolescente si sviluppa attraverso tre macroaree: i cambiamenti investono le relazioni con i genitori, le relazioni con i pari e il rapporto con il proprio corpo sessualmente maturo (Laufer, 1970) e le modalità di relazione con gli altri si rielaborano in base alle nuove acquisizioni e alle nuove sensazioni somatiche. E’ in questa fase che l’adolescente si confronta con le richieste provenienti dall’ambiente di appartenenza legate all’acquisizione di uno specifico ruolo di genere (gender role): la famiglia, in primis, esplicita le aspettative sociali e culturali rispetto allo sviluppo dell’identità personale dell’adolescente a seconda dell’appartenenza biologica ed anatomica al sesso maschile o femminile.
Alcuni adolescenti di fronte ai cambiamenti legati al rapporto con il proprio corpo in crescita, alla relazione con i coetanei e con i genitori vanno incontro a ciò che Laufer definisce breakdown evolutivo, una spaccatura tra il corpo fisicamente maturo ed il sentirsi passivi di fronte alle esigenze che dal corpo provengono, una frattura nel processo di integrazione dell’immagine del corpo fisicamente maturo rispetto alla rappresentazione che si ha di sé (1975).
L’adolescente deve al contempo tollerare il dubbio, la solitudine, la tristezza e l’angoscia che da tutto ciò scaturiscono. L’operazione, in tutta la sua ambivalenza emotiva, di separazione dai genitori, le delusioni rispetto a se stessi ed alle proprie ambizioni, la dolorosa rinuncia alle onnipotenti fantasie della bisessualità infantile con progressiva presa di coscienza dell’identità sessuale costituiscono elementi inevitabili del percorso adolescenziale, che ha nella capacità di elaborazione del lutto il suo elemento centrale.
Lo sviluppo dell’identità e delle relazioni che l’individuo stringe nel corso della propria vita è influenzato dall’esistenza di un mondo interno e di un mondo esterno e mediatico, che inevitabilmente influenza le giovani adolescenti. Non si può quindi prescindere, anche nella scelta dello sport da praticare, dall’influenza esercitata dalle relazioni con gli altri e con il contesto di appartenenza, dai modelli familiari, sociali e del gruppo dei pari in cui l’esperienza si sviluppa. In particolare, la famiglia può porsi da un lato come elemento di supporto dall’altro come elemento di disturbo nella scelta di perseguire uno sport (Antshel e Anderman, 2000).
Il ruolo delle giovani donne a Scampia è spesso in linea con le aspettative di genere legate ad un sistema sociale stereotipato, che le vede impegnate ad assumere una precoce funzione di cura e sostegno della famiglia, magari lasciando la scuola per un lavoro o sacrificando la vita sociale per occuparsi della gestione della casa e della fratria in assenza dei genitori. Di conseguenza, l’intento di dar vita ad una squadra femminile di calcio in un contesto in cui il disagio si rende manifesto in particolar modo durante il periodo adolescenziale sembra potersi porre, mediante lo sport, come una possibilità di inclusione sociale, di crescita e di prevenzione rispetto alle difficoltà che quotidianamente si pongono, in una fase in cui il bisogno di autonomia si accompagna a necessità di sostegno affettivo, relazionale. Questi gli obiettivi che abbiamo tenuto in mente nel dar vita all’esperienza del gruppo.
Dream Team Arciscampia: un’esperienza di calcio femminile di periferia
Il progetto Dream Team Arciscampia nasce e si inscrive nell’esperienza e nella storia dell’associazione Dream Team – Donne in Rete di Scampia. In un quartiere di periferia, dunque, tristemente balzato agli onori della cronaca nera negli ultimi 15 anni a causa delle complesse problematiche che lo caratterizzano. Un territorio in cui si vive una dinamica profondamente contraddittoria perché se da un lato si assiste alla proliferazione di situazioni di elevato degrado sociale, dall’altro queste stesse complessità sociali hanno dato la spinta vitale necessaria per la creazione di reti territoriali formate da cittadini prima e associazioni poi, impegnate nella quotidiana riqualificazione del quartiere.
Un’attenta osservazione della realtà sociale dell’area nord della città segnala indici elevati e concomitanti di persone detenute, popolazione femminile scarsamente scolarizzata, complessità dei nuclei familiari, spesso costretti a vivere in abitazioni illegalmente occupate e in situazioni di promiscuità. Numerosi sono, infatti, i nuclei familiari monogenitoriali col coniuge assente per detenzione o nuclei familiari trigenerazionali, correlati al doloroso fenomeno delle bambine madri, la cui infanzia naufraga in gravidanze precoci.
Dall’analisi dei dati sociali su Scampia, inserita nella Municipalità 8 del comune di Napoli, appare nei fatti evidente il rischio di devianza giovanile e violenza: in particolare, i dati di Profilo di Comunità della Municipalità 8 (2011) evidenziano come la donna sia ancora relegata ad una condizione sociale ed economica di profonda arretratezza. Sin dalla più giovane età, a causa dei modelli diffusi ed imperanti di sottovalutazione e svalorizzazione della sua figura, la donna viene condizionata alla sottomissione, in primo luogo sessuale, che le attribuisce un mero ruolo di oggetto, da prendere e mostrare, da rubare per poi restituire alla famiglia di origine con il segno del possesso: le gravidanze precoci. La composizione dei nuclei familiari ne è la riprova: famiglie multigenerazionali, con rapporti di promiscuità spinti. Spesso le responsabilità genitoriali sono esercitate dagli unici adulti presenti, che sono i nonni. Le bambine (si partorisce anche a 13-14 anni) vengono ritirate da scuola e tenute a casa a svolgere i lavori domestici e ad assumere un ruolo di genere specifico all’interno della famiglia, legato a compiti di accudimento e cura.
La crisi sociale complessa che questi fenomeni scatenano, diventa una condizione di mancata crescita individuale e mancata attivazione di risorse (empowerment) economiche e umane. L’Associazione Dream Team – Donne in rete è una associazione di promozione sociale costituitasi a Scampia nel gennaio 2009; nasce come rete di associazioni, cooperative e socie ordinarie che operano nel settore del volontariato, della cultura, dell’ambiente e dei servizi, della formazione e dello sviluppo territoriale. Il suo scopo è la valorizzazione, il potenziamento e lo sviluppo professionale delle donne di aree urbane in particolare condizioni di degrado sociale e ambientale; gli interventi a sostegno delle donne della comunità di Scampia, di conseguenza, pur avendo come obiettivo una dimensione femminile per lo più adulta, ricadono in maniera indiretta anche su target di popolazione legati alle donne da relazioni affettive e fiduciarie, di cura e di sostegno personale ed economico (minori, anziani, persone con disabilità..). L’associazione gestisce, grazie ad uno staff di professioniste volontarie, uno sportello di accoglienza, ascolto psicologico, consulenza legale, orientamento al lavoro, in rete con gli enti pubblici e del terzo settore del territorio. E’, inoltre, sede territoriale di uno sportello antiviolenza con protocollo d’intesa con la rete Inter-istituzionale del Comune di Napoli. L’Associazione, ha spesso riservato i suoi servizi ad un particolare tipo di utenza: donne, madri, nonne del territorio in difficoltà, offerto i suoi spazi fisici e psichici volti alla creazione di una dimensione gruppale e sociale.
Il progetto sportivo della Dream Team Arciscampia nasce nel 2015 da una condivisione di intenti con la scuola di calcio Arciscampia che, da sempre, attraverso il calcio raccoglie tutti quei ragazzini e bambini che nel territorio di Scampia amano lo sport, che nutrono per il calcio una passione infinita e al tempo stesso vedono in esso il mezzo per sfuggire ad una realtà sociale, comunitaria e spesso familiare complessa. Il campo, inteso come luogo fisico, è per la comunità di pre-adolescenti ed adolescenti una dimensione di incontro e scambio relazionale dove crescere insieme. L’associazione sportiva è, quindi, teatro di incontri, scontri, scoperta e anche di opportunità calcistica. Il lavoro della società calcistica Arciscampia rappresenta un punto di riferimento per l’intera comunità che ripone fiducia nella figura del presidente e di tutto lo staff. Nel caso della Dream Team Arciscampia, sono state accolte quelle ragazze che hanno risposto positivamente al progetto dell’associazione che, attraverso lo sport, attraverso l’esperienza del gruppo e della “sana” competizione, ha inteso fin dal principio rappresentare un’opportunità di crescita e sperimentazione di sé. Praticare uno sport è di per sè un’importante occasione di sviluppo psicofisico per gli adolescenti (Barber, Stone e Eccles, 2005), in grado di sollecitare piacere, divertimento, ma anche protezione dal rischio psicosociale: secondo la nostra esperienza, è il contesto stesso in cui l’esperienza si svolge a porsi come contenitore atto a sostenere il benessere e la crescita dei singoli individui e non l’ultimo alla formazione di un senso di appartenenza al gruppo e alla squadra.
Nascita di una squadra
Prima di occuparci dell’esperienza della Dream Team Arciscampia e delle riflessioni che ci hanno condotte al dare vita ad un’esperienza di gruppo riteniamo opportuno fare alcune considerazioni sulla percezione del calcio femminile in Italia.
Esso è ancora relegato ai margini, con una scarsa visibilità da parte dei media e una mancanza di progettualità da parte della Federcalcio e della Lega Nazionale Dilettanti, che possa far intravedere margini di crescita. In diverse regioni d’Italia mancano le strutture o i fondi e, la poca visibilità che il calco femminile ottiene nel nostro paese, non consente certo a società e sponsor di investire con progetti a medio e lungo termine. A tutto questo poi si aggiungono problematiche di tipo culturale e sociale che pongono limiti al calcio di base. La tendenza a considerare il calcio uno sport prettamente maschile è ancora troppo radicata nel tessuto sociale italiano. In virtù di una realtà nazionale così complessa e variegata, pensare alla creazione di una squadra di calcio femminile in un contesto altrettanto complesso come quello dell’area nord di Napoli, ovvero Scampia, ha significato, necessariamente, partire dall’osservazione del tessuto psicosociale e della realtà comunitaria in cui l’associazione opera. Abbiamo tenuto conto di una serie di fattori: in primo luogo l’età, la fascia adolescenziale risulta difatti essere più esposta all’assunzione di comportamenti a rischio, spesso eccessivamente adultizzanti, e alla dispersione scolastica; in secondo luogo, abbiamo valutato il legame tra la pratica sportiva ed il periodo adolescenziale; ed in terzo luogo, il rapporto esistente tra la realtà territoriale e gli stereotipi di genere in essa radicati.
Pertanto, abbiamo orientato e fondato il nostro lavoro partendo da alcune considerazioni importanti: la maggior parte delle adolescenti decide di dedicarsi ad una attività sportiva per piacere e divertimento, per gli effetti benefici sul corpo, o perché, come nella nostra storia, la passione innata per il calcio rende lo sport il canale principale attraverso cui potersi sfogare, sfuggire dalla propria realtà familiare e sociale. Tuttavia il periodo adolescenziale si configura anche come quel momento in cui gli adolescenti investono altri aspetti della loro vita, nascono altri interessi e priorità, e questo può portare ad un rifiuto per l’attività sportiva perché non si ha più voglia di avere un impegno fisso e un condizionamento che possa rubare del tempo agli amici e alla vita sociale, all’amore. Non ultimo abbiamo valutato lo stereotipo di genere per eccellenza, secondo cui il calcio è appannaggio solo ed esclusivamente di un mondo maschile, che il mondo femminile debba essere dedito ad assolvere ruoli di accudimento. Abbiamo considerato anche la possibilità e l’ipotesi di incontrare una resistenza familiare, genitoriale, un impedimento legato ad una dimensione, che potremmo definire generazionale; ovvero la credenza secondo cui il calcio non sia uno sport per “femmine” alimentata dal tabù per cui le donne hanno uno specifico posto da occupare. Un tabù che, attraverso il meccanismo della trasmissione psichica (1) tra generazioni, si radica nella mentalità della comunità e relega le giovani adolescenti a perseguire un destino già scritto. Tale resistenza si è, inoltre, esplicitata nella paura della dimensione sessuale, intesa sia come scoperta dell’altro sesso e dell’eccessiva esposizione del corpo sessuato, sia come scelta di un oggetto d’amore omosessuale. L’assenza di una progettualità destinata a coinvolgere le diverse fasce d’età, a partire dall’infanzia, la mancata conoscenza dell’esistenza di una squadra di calcio femminile e le idee stereotipate radicate nel territorio dove operiamo, sono stati gli elementi che hanno reso complessa la costituzione e formazione della squadra. Trasmettere l’informazione, dare comunicazione della possibilità di vivere un’esperienza di calcio femminile incontrava la sfiducia, inizialmente, dell’ambiente esterno, ma anche la paura dell’estraneo, di ciò che non si conosce e non ultimo l’esposizione del corpo femminile ad un mondo maschile pronto ad emettere giudizi. Viene allora da chiedersi in che modo il contesto in cui l’esperienza sportiva è vissuta, possa rappresentare un fattore di protezione per il benessere delle adolescenti, sostenendone la crescita come individui e come atlete.
Nell’ambito del nostro progetto il contesto di riferimento per le ragazze è duplice: quello della società sportiva Arciscampia, in cui la totalità dei ragazzi del territorio si allenano e si formano (gli stessi fratelli delle giocatrici, o familiari altri); e il contesto associativo, la Dream Team, riferimento per la comunità di donne e per le altre associazioni del territorio. Coniugare il lavoro di realtà così diverse e variegate ha richiesto un costante e monitorato lavoro sulla percezione esterna ed interna e sull’accettazione dell’idea di una squadra femminile. A tal fine, l’Associazione Dream Team si è posta come una istituzione, come garante dell’esperienza sportiva e formativa, luogo fisico e psichico per avviare il processo di nascita e costituzione fondante della squadra. Essa ha assolto a quella funzione psichica di contenitore/contenuto, teorizzata da Bion in Apprendere dall’Esperienza (1972), che risale alla precoce relazione madre- bambino e si riferisce alla capacità della madre di accogliere e contenere le angosce che il bambino proietta, in quanto percepite come intollerabili e non elaborabili. Attraverso tale meccanismo ella in grado di restituire al piccolo tali contenuti, dotati di senso, permettendo la comprensione dei vissuti e lo sviluppo della capacità di pensiero, apprendendo dall’esperienza. Questa configurazione rappresenta il meccanismo di base generatore del pensiero e si può estendere alla modalità di lavoro delle istituzioni e dei gruppi.
Per dirla con Bion (1973) se la funzione del gruppo è quella di produrre un genio, la funzione dell’istituzione è di raccoglierne e assorbirne le conseguenze così che il gruppo non ne venga distrutto.
L’istituzione/associazione si è posta e si pone come contenitore, intriso di emotività, in grado di accogliere la domanda di aiuto, di arginare l’ansia, comprendere problematiche ed essere il luogo in cui sviluppare la capacità di pensare all’interno di una relazione sufficientemente buona. La strutturazione del contenitore, si fonda ed è resa possibile attraverso la formazione di una cornice, di un setting. Esso organizza l’esperienza degli individui che fanno parte del gruppo nello spazio e nel tempo e ne delimita anche i confini, tra interno ed esterno.
Perché un gruppo psicologico per una squadra di calcio femminile?
La gestione psicologica del gruppo è sicuramente ritenuta importante, ma è ancora nettamente posta in secondo piano rispetto alla considerazione di cui godono le competenze tecniche e tattiche di atleti e allenatori. Nonostante valide attitudini e nozioni psicologiche, esiste una certa resistenza culturale nei confronti di queste e ciò, probabilmente, è più dovuto a fattori di tipo ambientale piuttosto che a responsabilità dirette degli allenatori. E’ ancora molto diffusa l’opinione per cui gli allenatori sappiano sempre essere anche dei buoni preparatori mentali e che quindi sappiano, da soli, affrontare anche altri tipi di difficoltà che gli adolescenti incontrano.
Quando si pensa ad un professionista che affianchi e accompagni il lavoro di una squadra si pensa ad uno psicologo dello sport, ovvero quella figura che non si sostituisce all’allenatore, ma lavora al suo fianco offrendogli il suo punto di vista sulle dinamiche che si svolgono sul campo, adoperandosi attraverso le sue competenze per migliorare la comunicazione, le relazioni, le problematiche, i blocchi emotivi.
Perché non pensare ad una figura psicologica che espleti tale funzione? L’esigenza di pensare, nella nostra esperienza, ad un gruppo psicologico per una squadra di calcio può apparire insolita per coloro che si focalizzano sulla dimensione della competizione, della sfida e della crescita professionale degli atleti e, in una prospettiva più ampia, di comunità, appare ancora più difficile da concepire. Sembra quasi che tale scelta confermi, piuttosto, una difficoltà in questo gruppo di ragazze che hanno risposto positivamente all’annuncio di una associazione del territorio promossa attraverso l’Arciscampia, istituzione del calcio giocato, ed il passaparola tra le utenti e la rete territoriale delle associazioni.
Nella nostra prospettiva di lavoro abbiamo ripensato alla dimensione adolescenziale come quel momento della vita in cui l’adolescente cresce e struttura il proprio Io anche sulla base delle identificazioni con le proprie figure genitoriali e i proprio oggetti d’amore. Al centro della sua ricerca c’è una preoccupazione narcisistica rispetto a chi si è, a come si è percepiti dagli altri quanto si è simili o diversi dagli altri, dai coetanei. Certe di questa visione e degli obiettivi del nostro lavoro abbiamo attività uno spazio gruppale, piuttosto che operare la scelta di limitare la nostra azione e progettualità al momento sportivo.
Una squadra non si configura di per sé come un gruppo? Non ci sono figure, come gli allenatori, preposte a questo compito? Perché le ragazze hanno dovuto essere accompagnate da una psicologa? Queste le domande poste dal contesto esterno – la società sportiva – nonché da quello interno. Nel nostro percorso la risposta a queste domande è ovviamente no, sia da un punto di psichico che da un punto di vista concreto e reale. Di fatti, l’unica realtà che accomunava le ragazze era la scelta di giocare a calcio, la passione infinita per questo sport. Le condizioni che hanno richiesto un lavoro gruppale, scandito temporalmente, con frequenza quindicinale sono molteplici. Esse risiedono nella diversa età delle ragazze che hanno aderito al progetto, diverse età e spesso diversi livelli evolutivi sebbene tutte collocate nella fascia adolescenziale: c’è chi si apprestava a fare il passaggio alla scuola superiore di II grado, chi invece si apprestava ad affrontare l’esame di maturità o il primo esame universitario, chi si apprestava a lasciare la scuola o chi aveva deciso di entrare nel mondo del lavoro. Ancora una dimensione familiare complessa, in alcuni casi di povertà, in altri casi nuclei familiari monoparentali, o situazioni patriarcali con un forte senso di maschilismo e ghettizzazzione rispetto al ruolo femminile Altresì una dimensione sessuale sconosciuta rispetto alle relazioni eterosessuali ed omosessuali: molte domande, dubbi sono stati pensati in uno spazio, come quello del gruppo, rispetto a come si rapporta e si vive in un corpo che è in continua evoluzione ed esposizione.
Nel porsi questo tipo di domande e nel tentativo di fornire delle risposte non possiamo, non ripensare a queste parole:
Gli adolescenti costruiscono un senso di se stessi e delimitano le loro identità-differenti dalle loro madri, dai loro padri, dai loro nonni, fratelli e così via, e facendo questo essi cercano la propria diversità, la propria integrità personale, il proprio senso di se stessi che ha senso per se stessi.
(Di Ceglie, 2003)
Occorre inoltre riflettere sulle implicazioni dinamiche ed affettive che questa nuova rappresentazione del corpo comporta, sia per l’adolescente che per i suoi oggetti (Marchese ed altri, 2001). È nel corpo, che si inscrive la crisi dell’adolescente e delle sue rappresentazioni, e il conflitto che egli vive è circoscritto essenzialmente tra il desiderio di essere uguale ed essere diverso. Il gruppo in questo senso è divenuto il contenitore di vissuti non elaborati, depositario di aspetti grezzi, indicibili rispetto alla propria sessualità.
L’analisi della dimensione adolescenziale, la complessità delle sfide evolutive che gli adolescenti si trovano ad affrontare, le spinte regressive, le pressioni verso una strutturazione di un Io maturo ed in contrasto un Io familiare disorganizzato, disgregato e un vuoto contenitore, nonché un territorio complesso nella sua organizzazione ci ha fatto pensare all’idea di un gruppo che non si sviluppasse per queste ragazze come un
sostegno, ma come un momento per pensare, uno spazio in cui insieme e non da sole avviare un processo di conoscenza del loro apparato di pensiero e di un corpo sessuato che si evolve. La nascita del gruppo è stata, spesso, sottoposta ad attacchi, insinuando il dubbio che esso si fondasse su di una debolezza insita nel genere femminile, dimenticando spesso che il contesto in cui le ragazze vivono necessita di uno spazio in cui gli agiti possano essere visti, elaborati e pensati. Il tutto è necessario in un quartiere in cui la collusione tra aspetti psichici e reali è forte, e la dimensione psichica è esclusa a fronte di un reale fattuale che incombe e che detta il destino come un incastro, una cripta (Abraham e Torok, 1978) (2) in cui la negazione è il meccanismo psichico per la sopravvivenza.
a) Il primo incontro
La parola tedesca unheimlich ovviamente è l’opposto di heimlich e di heimisch [casalingo, familiare, nativo], ossia l’opposto di ciò che è abituale, per cui tenderemmo a dedurre che una cosa “perturbante” spaventa proprio per non essere nota e consueta (Freud, pag. 247, anno 1913)
La citazione di Freud ci pone immediatamente nell’atmosfera del primo incontro di gruppo. Chi era la persona che le attendeva intorno ad un tavolo circolare, ma soprattutto perché voleva così tanto conoscere le giovani ragazze della Dream Team Arciscampia? Si respirava un’aria di diffidenza verso la sconosciuta che attendeva in silenzio che le emozioni, pensieri che correvano veloci, trovassero forma in un linguaggio dialettale familiare, che si fermava non appena gli sguardi si incrociavano per poi ripartire. Fermare o meglio contenere il flusso emotivo di undici individualità senza spaventare: era questo il compito iniziale. Accogliere.
La difficoltà a parlare di sè ha caratterizzato il primo incontro, nonché i primi mesi di lavoro. Parlare di sé per queste ragazze significava permettere ai singoli partecipanti del gruppo di entrare in aspetti della propria vita personale, familiare, intimi, vicini. Il loro corpo, i loro comportamenti, il loro tono di voce, i loro sguardi ansiosi – spaventati e al tempo stesso curiosi – erano al posto del pensiero, del linguaggio. Agire anziché pensare, mostrare anziché parlare. Pronte a testare l’affidabilità e la credibilità della persona adulta posta dinanzi a loro che chiedeva di raccontarsi. Perché era così importante raccontare e provare ad esprimere il loro pensiero? D’altronde erano lì per giocare a calcio. Essere una squadra ed essere un gruppo non coincide? Capire il motivo per cui dovevano incontrare una psicologa, interessata alle loro storie di vita senza che queste trapelassero all’esterno, senza che esse fossero esposte a giudizio, condanna, denunce… ha contraddistinto il primo incontro ed il primo semestre di lavoro. Confusione, ansia ed incertezza erano gli stati emotivi del primo incontro di cui le giovani adolescenti erano portatrici; sentimenti condivisi, comuni proiettati come un fascio di luce.
E’ stato necessario, difatti, utilizzare dei mediatori (quali giochi psicologici, test scritti) per potere superare l’iniziale diffidenza verso la psicologa, ma anche verso le compagne di squadra. Una diffidenza, una resistenza radicata nel modo di pensare il rapporto con l’altro; una modalità trasmessa da madre a figlia, da famiglia a famiglia e che trova espressione nella fantasia per cui l’estraneo può danneggiare perché non si conosce. La fantasia e la convinzione che lo psicologo si occupi di curare il disagio mentale ha costituito un ostacolo nell’avvio del percorso di conoscenza per alcuni membri del gruppo e delle rispettive famiglie. Lo stereotipo della malattia mentale ha investito la psicologa e ha reso necessario un processo di conoscenza reciproco. E’ stato, pertanto, necessario che il materiale raccolto durante il primo incontro, così come per quelli successivi, non sia stato condiviso ad alta voce; è stato necessario tenere in mente le loro storie scritte senza divulgare; è stato necessario imparare subito i loro nomi; è stato necessario porre le condizioni per l’esistenza del gruppo: tempo e spazio, esterno ed interno.
La dimensione spaziale di protezione per cui tutto ciò che è detto nel gruppo rimane nei confini di esso è ciò che ha permesso e garantito l’avvio del gruppo e ha fondato la possibilità degli altri incontri. Porre condizioni stabili nel tempo e nello spazio ha segnato la possibilità di strutturare l’apparato per pensare, un contenitore all’interno del quale trovare spazio in senso fisico e psichico. L’avvio del setting di lavoro (stesso giorno ed ora) ha posto le condizioni emotive per cui attuare il passaggio da individui indipendenti al gruppo.
b) Verso l’anno di lavoro
Quando due personalità si incontrano, si crea una tempesta emotiva. Se fanno sufficiente contatto da essere consapevoli l’una dell’altra, o anche da non esserlo, dalla congiunzione di questi due individui si produce uno stato emotivo (Bion, 1979).
Essere un oggetto fermo, stabile, accogliente e resistere alle forze disorganizzanti proveniente dall’esterno ha permesso di costruire una dimensione di reciproca fiducia che ha dato l’avvio ad un buon incontro. Esso ha permesso ai membri del gruppo l’accettazione di alcune regole e norme a cui attenersi, condizioni imprescindibili per un lavoro che aveva tra gli obiettivi: l’inclusione sociale, combattere la dispersione scolastica, acquisire un linguaggio appropriato, fare esperienze formative o lavorative rendicontare i risultati scolastici. Obiettivi che hanno portato l’Associazione Dream Team a mettere su una rete con le scuole del territorio e con le associazioni che potessero offrire percorso formativi adeguati.
Le giovani adolescenti hanno potuto iniziare un’esperienza diversa, una dimensione che potremmo definire trans individuale in cui lo spazio del gruppo diventa il luogo in cui depositare pensieri, agiti, preoccupazione e desideri. Tollerare ed accogliere la violenza e l’indicibilità dei vissuti, restituire il non senso, la confusione, è ciò che Bion definisce funzione di rêverie. (3) L’incontro quindicinale con la psicologa è divenuto, nel tempo un impegno fisso a cui non mancare, un momento in cui poter pensare al proprio corpo che cambia, ai desideri sessuali, alle preoccupazioni familiari, scolastiche allo sport giocato, a che cosa significa essere una giovane donna in un contesto maschile, spesso discriminante. La condivisione di queste aspetti non è stata priva di conflitti violenti. Ciascun membro del gruppo era portatore di una propria modalità di pensiero, una propria visione su come affrontare le difficoltà, certe delle loro esperienza che le portava all’abbandono. Abituate a tale modalità le giovani adolescenti hanno lavorato sulla possibilità di sopravvivere alle differenze, agli scontri. Supportate e orientate a lavorare su come gli agiti possono trasformarsi in forme di pensiero, le ragazze hanno iniziato un percorso di conoscenza e consapevolezza nel rispetto delle differenze e delle proprie risorse, capacità e limiti. Sono state aiutate e supportate nei loro percorsi scolastici o lavorativi, nonché nelle difficile relazioni con i propri genitori.
L’affermazione di una modalità di pensiero che rappresentasse il gruppo, così come la costituzione di una membrana/ pelle che definisse il loro senso di appartenenza e le difendesse dalle intrusioni esterne ed interne è stato un percorso arduo e non privo di abbandoni da parte di alcuni membri. Il gruppo ha iniziato a parlare di sé attraverso la rappresentazione della propria pelle (Anzieu 1985), ovvero quella della Dream Team Arciscampia.
Dopo il primo anno di lavoro il gruppo ha resistito alle separazioni e ai cambi di direzione da parte degli allenatori; si è così avviato ad un nuovo anno in cui le ragazze sono state orientate nella scelta delle loro attitudini e capacità. Alcuni membri hanno scelto di iniziare un’esperienza di volontariato presso la nostra associazione; altre hanno seguito un percorso di formazione per operatori dell’infanzia, ed altre sono state
selezionate come volontarie in un percorso formativo per operatori dell’infanzia e dell’adolescenza. Nel ripensare al lavoro di Bion sugli assunti di base e sugli stati emotivi che il gruppo ha affrontato, potremmo dire che nel percorso durato due anni esso ha attraversato modalità di funzionamento come l’attacco-fuga, la dipendenza e non ultimo l’accoppiamento, riuscendo a trovare un assetto.
E’ difficile ed emozionante condividere l’esperienza di crescita delle ragazze perché la storia delle ragazze della Dream Team Arciscampia è una storia di “bambine ribelli”; una storia che vince i pregiudizi e gli stereotipi di un mondo al maschile, una storia di rete ed associazione, una storia che sopravvive nonostante la scarsa attenzione che le istituzioni rivolgono al calcio femminile e alle associazioni.
NOTE:
1)Il discorso della trasmissione viene affrontato in modo esauriente in particolare in due testi: Totem e tabù (1913), e Introduzione al narcisismo (1914). Nel primo testo, Freud analizza come avviene la trasmissione del tabù nell’organizzazione sociale e nella realtà psichica, e con quali mezzi e contenuti avviene. Il tabù si pone come intermediario tra due soggetti, acquista forza e potere grazie alle qualità o al carisma della persona che lo trasmette, e si pone al tempo stesso come desiderato e proibito. La trasgressione del divieto da parte del soggetto, perché lo desidera, gli conferisce forza e pericolosità e si trasmette per contatto all’oggetto. La trasmissione avverrebbe, quindi, tramite il contagio. Essa rifletterebbe un processo che realizza un desiderio inconscio, il desiderio di trasmettere. Per comprendere al meglio come avviene il passaggio del tabù nella vita psichica, Freud utilizza il modello dei divieti ossessivi. I divieti sono tabù antichissimi, imposti dall’esterno ed inculcati a forza di generazione in generazione. La loro trasmissibilità si potrebbe attribuire o alla tradizione rappresentata dall’autorità dei genitori e della società, oppure al fatto di essere organizzato nelle generazioni successive come parte di un patrimonio genetico. Freud formula, in tal senso, un’altra ipotesi per spiegare il meccanismo della trasmissione psichica. E’ possibile, infine, distinguere due ipotesi, due vie: la prima fa riferimento alla tradizione e alla cultura, ritenendo che l’apparato sociale e culturale assicuri la continuità di generazione in generazione; la seconda si rintraccia nel fatto che i divieti si organizzano nelle generazioni come parte di un patrimonio psichico ereditato.
2)Le ricerche sulla trasmissione psichica, a partire da quelle di Abraham e Torok degli anni ‘70 hanno posto l’accento sui difetti della trasmissione, evidenziando il ruolo della colpa, del segreto, della non-simbolizzazione. Questi ultimi hanno dato il via alla ricerca sulle influenze psichiche, attraverso i loro scritti sul fantasma, il lutto e la cripta. I due autori pongono in primo piano una netta distinzione tra le influenze intergenerazionali e transgenerazionali. Le prime avvengono tra generazioni vicine in situazioni di relazione diretta, le seconde avvengono tra generazioni successive. In tal senso è possibile che i contenuti psichici dei discendenti siano influenzati, segnati, dal funzionamento psichico dei nonni o di ascendenti che non hanno mai conosciuto, ma che hanno lasciato un segno sulla vita psichica dei genitori.
3) La rêverie materna, o anche sogno ad occhi aperti, è la capacità della madre di immergersi, immedesimarsi con il vissuto del bambino, attraverso una forma di pensiero pre-concettuale, empatico. La madre sente nel suo corpo ciò che sente il bambino e tutto ciò avviene mediante una forma di comunicazione viscerale, presimbolica tra i due. Attraverso la rêverie materna, quindi, fattore della funzione alfa, il bambino diventa capace di tollerare prima la non-cosa, la cosa sconosciuta, fonte di angoscia, e poi di conoscerla. La madre, quindi, favorisce l’introiezione di un oggetto buono, ed anche la formazione di strutture e funzioni mentali, ponendosi come contenitore di elementi beta, che accoglie, restituendoli trasformati in contenuti che possono essere usati per l’attività di pensiero.
dr.ssa Anna Di Guida
dr.ssa Sara Di Somma